Il khadi è un particolare tipo di tessuto indiano, la materia prima è il cotone, anche se possono essere utilizzate anche seta e lana. Il cotone è filato, tessuto molto versatile, caldo d’inverno e fresco in estate. Resta comunque un materiale molto semplice e “grezzo”, per questo motivo molte volte viene inamidato in modo tale che abbia una forma più “corposa”.
Il khadi ha un forte valore tradizionale per gli indiani, poiché spesso associato al Mahatma Gandhi.
Una leggenda indiana narra che Gandhi stesso avesse esortato gli indiani a vestirsi con abiti fatti con questo tessuto. Infatti il khadi era anche il simbolo della produzione interna e della resistenza dell’India opposto ai tessuti occidentali dettati dal colonialismo.
L’India è una vasta nazione divisa sin dai suoi albori: politicamente, linguisticamente e socialmente, altra importante divisione interna è quella delle caste che consistono in una divisione in classe di tutta la società, la più importante divisione è religiosa.
In India convivono culture diverse che seguono l’islamismo, il buddismo e il gianismo. Quest’ultimo si basa sugli insegnamenti di Mahāvīra (il «grande eroe», e conosciuto anche con il nome Jina ovvero «vincitore», grande maestro spirituale indiano contemporaneo del Buddha (559-527 a.C.), il quale ha indicato la via alla perfezione umana attraverso l’assoluta nonviolenza.)
Questa religione influenzò profondamente il Mahatma Gandhi e condizionò il suo stile di vita pacifico e che non danneggia nessuno.
Nel 1869 in una famiglia agiata di Porbandar nasce Mohandas Karamchand Gandhi.
Da giovane si appassiona agli studi giuridici e per questo motivo la famiglia gli concede di compiere i suoi studi superiori a Londra.
Diventato avvocato, torna in India, ma ad attenderlo a casa ci sono delle brutte notizie: il consiglio della sua casta lo ha bandito perché ritiene che la vita condotta in Europa lo abbia sicuramente portato sulla strada della promiscuità.
Bisogna cambiare aria e per questo motivo si trasferisce in Sudafrica con in mano una valigia e l’incarico di consulente legale per una ditta indiana.
Ma durante un viaggio in treno all’interno del Paese il capotreno gli intima di lasciare lo scompartimento di prima classe e spostarsi in quello di terza, dove viaggiava la gente di colore. RICORDATE L’APARTHEID?
Questo è l’episodio chiave che porterà Gandhi ad approfondire la questione della segregazione razziale in Sudafrica e cominciare la sua attività politica contro il dispotismo delle autorità britanniche e l’apartheid.
C’è però una novità.
È inutile rispondere alla violenza con altra violenza. Gli inglesi hanno potere, armi e manganelli. Gli indiani devono invece usare la forza della propria dignità e della giustizia. La «resistenza passiva»
La non-violenza di Gandhi non è sottomissione alla volontà di chi detiene il potere, ma la «ribellione della propria anima contro la volontà del tiranno».
Curiosità: Nella comunità indiana del Sudafrica, Gandhi fondò tre squadre di calcio: a Durbam, a Pretoria e a Johannesburg. Il nome era lo stesso per tutte: “Passive Resisters Soccer Club”.
Gandhi abbandona il Sudafrica dopo ventun anni di lotte lasciandosi alle spalle un Paese dove, grazie alle sue battaglie, sono state attuate importanti riforme a favore dei lavoratori indiani, eliminate parte delle vecchie leggi discriminatorie, riconosciuti ai nuovi immigrati parità dei diritti e convalidati i matrimoni religiosi.
Anche per questo motivo, la popolazione lo elegge Mahatma, un titolo onorifico che deriva dal sanscrito e significa «Grande Anima».
Nonostante Gandhi fosse restio ad accettare questo riconoscimento, perché riteneva non ci fossero differenze tra grandi e piccole anime.
Nel 1915, mentre imperversa la Grande Guerra, Gandhi torna in India dove già da tempo si accendono ovunque focolai di ribellione contro l’arroganza e la violenza del dominio britannico.
A inasprire ancora di più i toni è la nuova legislazione agraria, che prevede il sequestro delle terre ai contadini in caso di scarso raccolto.
Gandhi compie un lungo viaggio attraverso le diverse regioni dell’India al fine di prendere coscienza delle condizioni di vita degli indiani che lui aveva tanto difeso all’estero.
Il Mahatma diventa così il capo politico e morale del movimento d’indipendenza nonché il leader del Partito del Congresso, esorta così gli indiani a un ritorno a una vita agreste primitiva, rurale, lontana dalle modernità occidentali.
La campagna politica di boicottaggio di Gandhi si estende in tutto il Paese: giudici, maestri, e funzionari pubblici cominciano a dimettersi, le scuole inglesi abbandonate, i prodotti britannici invenduti. Anche a Londra si accorgono che l’India è diventata praticamente ingovernabile.
Winston Churchill non nutriva grandi simpatie per Gandhi. Lo definiva “un fachiro sedizioso che se ne va mezzo nudo”… quanta arroganza eh!
Gli indiani protestavano per il fatto di non poter vendere il loro sale sui mercati internazionali, che invece erano sfruttati dai Britannici.
Per questo motivo Gandhi, in un plateale atto di disobbedienza civile, si mette alla testa di una marcia che durerà 24 giorni coprendo a piedi una distanza di 200 miglia fino al raggiungimento delle saline, presidiate dalla polizia inglese.
In segno di protesta il Mahatma raccoglie un pugno di sale e, subito dopo di lui, tutti ripetono il suo gesto. Dopodiché migliaia di indiani si fermano pacificamente davanti all’esercito che, nonostante l’ordine di sparare sulla folla, depone le armi.
La “marcia del sale” si concluderà con l’arresto di più di 60.000 persone, tra cui Gandhi e sua moglie Kasturba Makanji, condannato a sei anni, e moltissimi membri del Congresso. In totale, in tutta la sua vita Gandhi sconterà 2.338 giorni di carcere, senza mai aver commesso un atto di violenza.
Gandhi fu nominato cinque volte per il premio Nobel per la pace, addirittura nel 1948 non lo assegnarono a nessuno – ma non lo vinse mai.
1942 Gandhi rivolge il suo ultimo appello al governo britannico per l’indipendenza dell’India con il celebre discorso tenuto a Bombay.
Con le celebri parole «Quit India, lasciate l’India». Il 15 agosto 1947 l’India conquista la propria indipendenza.
Ma a quale costo? Il processo d’indipendenza inizia con uno dei traumi più profondi del secolo scorso.
Dai territori liberati dal giogo della corona britannica nascono due stati autonomi, pensati male e disegnati peggio.
Un’India centrale «per gli indù» e un Pakistan «per i musulmani» diviso in due.
Le violenze tra la comunità musulmana e quella indù lasciano sul campo quasi tre milioni di morti e almeno quindici milioni di sfollati.
Il 30 gennaio 1948, un estremista indù di nome Vinayak uccide Gandhi con tre colpi di pistola mentre si reca in giardino per la preghiera delle 5pm
Costui ritiene Gandhi responsabile di aver ceduto alle richieste di autonomia del governo pakistano e dei gruppi musulmani.
Il killer viene subito catturato, processato e condannato a morte, nonostante l’opposizione dei sostenitori di Gandhi che, come il loro leader spirituale, erano contrari alla violenza e a questa forma di giustizia sommaria.
Il 6 febbraio del 1948 due milioni di indiani partecipano al funerale di Gandhi. Le ceneri – secondo la sua volontà – vengono disperse nei più importanti fiumi del mondo (Gange, Nilo, Tamigi, Volga).
Vorrei chiudere con un piccolo discorso del protagonista di oggi e la conclusione di questo evento per spiegare con poco la filosofia di questo uomo illuminato.
“Potranno romperci le ossa, prendersi le nostre terre, potranno prendersi i nostri averi e potranno anche ucciderci. E a quel punto cosa avranno ottenuto? Avranno ottenuto i nostri cadaveri, non la nostra obbedienza! Io sono disposto a morire per questa causa [l’uguaglianza tra tutti gli individui], Ma non c’è nessuna causa per cui io sia disposto ad uccidere!”
Dal luogo di questo discorso parte un corteo pacifico che però viene fronteggiato e caricato dalla polizia a cavallo.
Il massacro sembrerebbe essere alle porte, ma Gandhi suggerisce ai partecipanti di sdraiarsi a terra, ben conoscendo i cavalli e sapendo non li avrebbero mai calpestati.
Così avviene. Dopo di che la polizia se ne va e il corteo continua.
Questa è la prima vittoria del metodo Gandhiano e della non-violenza. Non-violenza (Ahimsa, in sanscrito) che non è non-azione, ma è azione consapevole e consapevole anche dei rischi che questa azione comporta!
Se vuoi ascoltare questa puntata arricchita di “Vedo cose faccio gente” puoi pigiare qui.