La performance d’artista è un’azione artistica, generalmente presentata ad un pubblico.

Una performance o azione può essere scritta seguendo un copione o non scritta, casuale o orchestrata attentamente, spontanea o pianificata, con o senza coinvolgimento di pubblico. Una performance può inoltre essere eseguita dal vivo o presentata tramite dei media.

Un’azione performativa coinvolge generalmente uno o più dei quattro elementi base: tempo, spazio, il corpo del performer, o in alternativa la sua presenza in un medium, e la relazione fra il performer e il pubblico.

La performance d’artista può essere fatta in qualsiasi luogo e senza limiti di durata. L’azione di un individuo o di un gruppo in un particolare luogo e in un particolare lasso temporale costituisce l’opera stessa.

Il significato del termine performance d’arte nel senso corrente è legato alla tradizione postmoderna nella cultura occidentale.

A partire dalla metà degli anni sessanta, derivando spesso concetti dalle arti visive delle avanguardie storiche, la performance d’artista era tendenzialmente definita in antitesi al teatro, trasformando di fatto le forme artistiche ortodosse e le norme culturali.

L’idea di base era quella di un’esperienza effimera e autentica sia per il performer che per il pubblico in un evento che non avrebbe potuto essere ripetuto, bloccato o comprato.

Attiva fin dagli anni sessanta del XX secolo è definita la «nonna della performance art»: il suo lavoro esplora le relazioni tra l’artista e il pubblico, e il contrasto tra i limiti del corpo e le possibilità della mente.

Marina Abramović è la regina della performance artistica!

Nacque a Belgrado il 30 novembre del 1946: nipote di un patriarca della chiesa ortodossa serba, successivamente proclamato santo.

Entrambi i genitori erano partigiani nella seconda guerra mondiale: suo padre Vojin Abramović fu un comandante riconosciuto eroe nazionale; sua madre, Danica Rosić, maggiore dell’esercito, alla metà degli anni sessanta fu nominata direttrice del Museo della Rivoluzione e Arte in Belgrado.

Marina ricevette la sua prima lezione d’arte dal padre all’età di 14 anni: era il 30 novembre 1960, avendo chiesto al genitore di comprarle dei colori, lui si presentò con un amico il quale cominciò con il tagliare a caso un pezzo di tela, poi una volta steso a terra vi gettò sopra colla, sabbia, pietrisco, bitume, colori giallo e rosso, poi dopo aver cosparso il tutto con trementina collocò un fiammifero al centro della composizione che fu avvolta dalle fiamme e disse: “Questo è il tramonto”.

Dal 1965 al 1972 studia presso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado.

Dal 1973 al 1975 ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti di Novi Sad, mentre creava le sue prime performance. Nel 1974 viene conosciuta anche in Italia, dove presenta la sua performanceRhythm 4, esposta a Milano.

Nel 1976 lascia la Jugoslavia per trasferirsi ad Amsterdam. Nello stesso anno inizia la collaborazione e la relazione (che durerà fino al 1988) con Ulay, artista tedesco.

Nel 1997 vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia con l’esecuzione Balkan Baroque.

Dopo 12 anni di amore e di sodalizio artistico, Abramović e Ulay decidono di lasciarsi e di sancire la fine del loro rapporto con un’ultima performance, The Wall Walk in China: entrambi percorrono a piedi una parte della grande muraglia cinese partendo da capi opposti per incontrarsi a metà strada e dirsi addio.

Seguono anni di ostilità e battaglie legali circa i diritti d’autore della produzione artistica: Ulay denuncia Marina per aver venduto autonomamente opere appartenenti ad entrambi.

Nel settembre 2016 il giudice gli dà ragione e costringe Marina a versare 250.000 euro all’ex partner per violazione di un contratto firmato nel 1999, che regolamentava l’uso dei lavori realizzati insieme fra il 1976 e il 1988.

Si riavvicineranno nel 2020, poco prima della morte di Ulay, durante una performance di Marina al MoMa di New York, tra tutte le performance cito una super super famosa se non altro per il gossip che ne è scaturito sin da subito e perché quando si parla di arte in radio è bene raccontare qualcosa che più o meno i molti si sono imbattuti se non altro in un’immagine, Al MoMA di New York in uno spazio aperto in cui è collocato un tavolo e due sedie una a fronte dell’altra, l’artista seduta guarda i visitatori invitati a sedersi.

La performance dura 736 ore ed è considerata una delle più lunghe performance della storia del MoMA. A tale performance si presenta inaspettatamente l’ex compagno Ulay, con cui i rapporti erano precedentemente stati burrascosi a causa di una serie di controversie sulla paternità di alcune opere.

La sua presenza dà vita a un memorabile ed intenso momento di riavvicinamento tra i due artisti.

«Guardavo spesso le nuvole mentre ero sdraiata sull’erba, e un giorno la mia vista è stata improvvisamente interrotta da aerei, che sono apparsi dal nulla e hanno lasciato un bellissimo schema nel cielo. In quel momento, mi sono resa conto che tutto poteva essere usato per creare e che non c’era motivo di limitarmi alla pittura in studio».

Per far capire l’estremizzazione dell’artista torniamo alla sua prima performance: è il  il 1973, l’opera si intitola Rhytm 10.

Durante l’esibizione, Marina, utilizzando due registratori e 20 coltelli, pianta le lame tra le dita aperte della propria mano. Ogni volta che si taglia, passa al coltello successivo con l’obiettivo, riascoltando la registrazione, di ripetere gli stessi gesti e gli stessi errori, dimostrando il mescolarsi del presente con il passato.

Rhythm 0 (realizzata a Napoli) e Rhytm 5. Entrambe le esibizioni mettono a rischio la sua incolumità: nella prima l’artista per sei ore si offre al pubblico che potrà usare su di lei “strumenti di piacere o di dolore” senza limiti. Nella seconda Marina si getta al centro di un incendio, perdendo conoscenza per la mancanza di ossigeno.

Nel 1997 vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia con l’esecuzione Balkan Baroque in cui spazzola per ore ossa di bovino per eliminare sangue e altri resti.

 Durante la presentazione della mostra a Firenze ( aggredita da uno che le ha spaccato una tela in testa) l’artista, parlando del rapporto tra genere femminile e carriera artistica, ha detto che “…non è difficile essere una donna artista: quello che importa è non aver paura di niente e di nessuno. Ma questo è il problema con le donne in generale”.

Di Marina si può notare la forza sin da piccola, lei racconta in un documentario che ha sofferto tantissimo da bambina, aveva poco da mangiare, i suoi genitori erano molto severi, insomma non è stata una passeggiata di salute.

Marina è fuggita dalla Belgrado di Tito senza mai liberarsi del suo passato. La sua casa di campagna sull’Hudson, vicino a New York è un cottage di legno a forma di stella, come il simbolo del comunismo. Coincidenze? Non credo proprio!

Quel passato tetro, minaccioso, che è stato storico ma anche familiare, esplode con forza nei ricordi di un’autobiografia che è uscita qualche anno fa in occasione dei suoi 70 anni, scritta con l’aiuto di James Kaplan, già biografo di Jerry Lewis e Frank Sinatra.

Si intitolava Attraversare i muri, perché «…nel clima oppressivo della Jugoslavia postbellica, i veri comunisti dovevano saper superare ogni ostacolo con la loro fermezza» (parole sue) “…perché a suon di botte e ceffoni mia madre mi ha addestrato a essere un soldato come lei, che dal dentista non voleva anestesia, quando si toglieva un dente».

E ancora: “I miei genitori si odiavano – donnaiolo lui, coriacea lei, dormivano nella stessa stanza con la pistola sul comodino – ma di volersi separare neanche un cenno. Nemmeno la morte ammettevano: tennero nascosto alla nonna anche il decesso di suo figlio, dicendole che era partito per un lungo viaggio in Cina. Io invece voglio riconoscere che dietro alla super Marina, al guerriero che in pubblico sopporta qualsiasi cosa, c’è una Marina insicura, incasinata, che da ragazza si sentiva brutta e goffa: naso troppo grande, occhiali troppo spessi, scarpe ortopediche per i piedi piatti. E da grande si sente brutta e vecchia, rottamata, ogni volta che un uomo l’abbandona. Il che succede sempre».

In un’intervista a La Repubblica Marina racconta sull’amore: “Metto continuamente sotto pressione gli amori della mia vita. Troppe richieste, troppa ossessione, troppa gelosia: una tempesta di emozioni tragicamente balcanica. Unita a un accanimento sul lavoro che nessuno riesce a reggere. Anche perché finisce per porli in secondo piano. Gli uomini mi abbandonano perché, insaziabile, pretendo tutto l’amore che non ho avuto da bambina. E perché non mollo mai: devo sempre dimostrare di vincere. Contro chissà chi».

Come questo sia direttamente collegato ai genitori lo ammette lei stessa quando dice “Prima eroi di guerra, poi membri di rilievo del Partito, erano fissati con il coraggio, la disciplina marziale, la determinazione. Siccome ero terrorizzata dall’acqua, a sei anni mio padre mi buttò giù dalla barca e si allontanò a remi: a furia di bere e scalciare, imparai a tenermi a galla. Mia madre invece era ossessionata dall’ordine e dalla pulizia: la notte mi svegliava urlando, se dormivo scompigliando le coperte. E al minimo sgarro mi picchiava fino a farmi blu. Abuso di minore? Probabilmente.

Però di Marina apprezzo soprattutto questa straordinaria forza, il non arrendersi mai, o meglio come dice lei “L’imperativo a svettare” ammettendo che la sofferenza fisica la sopporta bene ma quella emotiva ogni volta la distrugge seppur è abituata a incassare e rialzarsi, sempre.

Se vuoi ascoltare la puntata dedicata di “Vedo cose faccio gente” pigia qui.